Come tanti altri aspetti delle condizioni attuali del Paese, la storia dei talebani inizia durante la lunga guerra che ha opposto afghani e sovietici negli anni Ottanta (1979-89), in seguito all’intervento militare dell’URSS in soccorso del traballante governo comunista, installatosi al potere poco prima con un colpo di Stato.
Sulle prime, l’intervento militare di quella che era allora, nel decennio che aveva visto la macchina bellica americana ripetutamente umiliata in Vietnam, la più grande superpotenza al mondo, parve sortire il proprio scopo. Il governo comunista fece in modo che ovunque, nelle principali città del Paese, le colonne corazzate sovietiche trovassero le porte aperte e nel volgere di poche settimane soltanto, ristabiliti i collegamenti tra Mosca e Kabul, l’impresa sembrava conclusa con successo, l’ennesimo segnato dall’Unione Sovietica negli anni ’60 e ’70 a spese del grande rivale, impegnato a leccarsi le ferite.
Al di fuori di Kabul, Kandahar e delle altre città maggiori, nelle scarpate e nei deserti dell’entroterra, la popolazione rurale pareva costretta a subire la presenza sovietica e il regime da questa puntellato con rassegnata umiliazione. Neppure i famosi guerrieri santi, i mujaheddin, avevano potuto molto contro la mole dell’imponente orso sovietico. Nelle prime fasi del conflitto, il coraggio fu tutto ciò che gli afghani poterono opporre all’esuberante armamento dell’Armata Rossa, scrutando impotenti mentre questa si apriva la propria strada attorno all’Hindu Kush, a mala pena infastidita dall’eco delle solitarie fucilate scagliate dalle montagne.
Bisogna anche dire che nel 1979 c'è stata anche l'invasione sovietica dell'Afghanistan che, durante i dieci anni che è durata, ha spinto l'Arabia Saudita e altri Paesi musulmani ad inviare militanti armati in Afghanistan per lottare contro il comunismo e l'ateismo. Nascono così i gruppi Talebani che tanta infelicità hanno portato nella regione.
Tahar Ben Jelloun
Tuttavia, contrariamente alle previsioni iniziali, la situazione prese presto una piega imprevista dalle alte autorità di Mosca. Gli americani, i sauditi e i pakistani, sia pure per finalità diverse, trovarono una singolare corrispondenza di vedute sulla necessità di espellere a qualsiasi costo l’influenza sovietica dall’Asia Centrale, e si coalizzarono per fornire soccorso alle milizie che operavano lungo i passi settentrionali del Paese, dai quali transitavano il grosso dei rifornimenti necessari a mantenere operative le ingenti forze sovietiche stanziate, oramai stabilmente, in Afghanistan.
Quando i sovietici compresero di stare perdendo l’iniziativa, quando i mujaheddin iniziarono ad attaccarli con fucili d’assalto moderni e missili terra-aria prima di allora mai visti, forniti loro dagli americani attraverso la mediazione dei servizi segreti pakistani, Mosca decise di riformulare la propria strategia.
Se i sofisticatissimi Hind non bastavano più di fronte ai missili stinger, il Cremlino decise di ricorrere anch’esso alla strategia del logoramento, perseguibile con strumenti meno dispendiosi degli armamenti convenzionali. Fu allora che l’Afghanistan divenne il ginepraio di mine che vediamo oggi.
I sovietici, tuttavia, non si limitarono a fare largo uso delle classiche mine anti-uomo, ma impiegarono soprattutto dei prototipi di nuova concezione: ordigni piccoli, dal potenziale distruttivo più ridotto, ma assai più facili da posizionare, poiché potevano benissimo essere lasciate cadere per terra da un aereo, anziché dover essere interrate, come è necessario fare con le mine tradizionali, troppo grosse per passare inosservate.
Questo nuovo tipo di mine, perfezionate a partire dagli anni ’50, poteva quindi essere disseminato rapidamente anche su un terreno, come quello afghano, particolarmente difficile da scavare, e senza nemmeno esporre un solo uomo al tiro nemico. Cosa ancor più sinistra, prima di essere adoperati in Afghanistan, pare che questi ordigni siano stati oggetto di attente revisioni, in modo da fare assumere loro una forma che potesse incuriosire, anziché allarmare, spingendo i malcapitati ingenui che avessero avuto la sfortuna di imbattersi in essi a raccoglierli, innescandone in tal modo il detonatore.
I sovietici sapevano che i mujaheddin avrebbero presto imparato a convivere con questa nuova minaccia, ma ritennero anche che i più giovani e anziani tra loro non sarebbero stati altrettanto reattivi. Fu proprio tra i bambini che questi ordigni diedero i migliori risultati, e per tale ragione essi passarono alla cronaca come mine-giocattolo. E sembra che questa fosse davvero la precisa intenzione del Cremlino: eliminare sul campo l’attuale resistenza e stroncare sul nascere la futura generazione di guerriglieri.
Nemmeno pascoli, villaggi e fattorie furono risparmiati. Ovunque gli elicotteri sovietici riuscissero a spingersi, fiamme e fumo era tutto ciò che l’occhio poteva ritrovare.
Così, se i sovietici si ritrovavano sempre più frequentemente a sparare a delle ombre, in inferiorità tattica nonostante la superiorità di armamento, anche i mujaheddin dovettero ora fare i conti con un nemico nei confronti del quale non possedevano risposta. Pur abituati com’erano alle continue guerre tribali, mai avevano assistito prima di allora a simili strategie di sterminio sistematico, e la fuga fu l’unico rimedio al quale poterono fare ricorso. Donne e bambini abbandonarono l’Afghanistan in massa, riparando nei Paesi limitrofi, in particolare in Pakistan, dove la maggioranza di essi poté contare sul sostegno delle altre tribù pashtun. In breve tempo, in Afghanistan rimasero soltanto i maschi in grado di combattere; con la perdita dei contatti con le proprie famiglie, questi uomini persero gli unici elementi di affetto capaci di ammorbidire, sia pure limitatamente, il ferreo codice etico dettato dalla religione e dalla dura vita delle montagne.
Gli anni di guerra, di una guerra dalle dinamiche assai più simili a quelle che passano per le mani degli assassini, più che dei generali, condannarono un’intera generazione a una disumanizzazione inesorabile. Fu uno shock psicologico di portata mai vista prima, perfino in una società guerriera come quella afghana; uno shock paragonabile solamente con quello vissuto, nella storia europea, dalla generazione delle trincee, costretta troppo a lungo a condizioni di vita troppo lontane dalla propria idea di normalità per non uscirne mentalmente devastata.
Libro in mano, fucile in spalla
Mentre i loro padri e fratelli combattevano gli infedeli in patria, i figli dei mujaheddin riparati in Pakistan iniziarono a venir istruiti, in apposite scuole coraniche, alle correnti più radicali del credo sunnita, spesso da docenti provenienti dal cuore dell’Arabia, inesauribile patria dell’islam più intransigente.
Nel territorio pashtun a cavallo tra Afghanistan e Pakistan sorse un immenso complesso di alloggi, campi di addestramento e scuole di indottrinamento finanziate dagli Stati religiosamente più irriducibili (soprattutto Pakistan e Arabia Saudita) e dagli Stati Uniti d’America col preciso scopo di alimentare il più possibile le fila dei combattenti per la fede, al punto che le forze mujaheddin divennero, col passare degli anni, sempre più internazionali.
Fu proprio nella gestione quotidiana di questa immensa operazione di sostegno ai mujaheddin e ai loro figli che il servizio di sicurezza pakistano divenne la vera superpotenza politica che è oggi, e fu in queste scuole, nella seconda metà degli anni ’80, che si formò il nerbo del movimento talebano. In pashtu e in persiano talebani (طالبان) significa infatti studenti.
Di questa sorta di Stato-nello-Stato che si venne a creare nel Kashmir furono soprattutto i talebani a trarre il maggior profitto. Nella pleiade di movimenti islamisti sempre più radicali, i servizi segreti pakistani identificarono proprio nei futuri seguaci del mullah Omar il gruppo maggiormente capace di governare l’Afghanistan, a guerra finita. Per quanto incredibile possa apparire al lettore di oggigiorno, la scelta dei servizi di sicurezza pakistani ricadde sui talebani proprio perché essi costituivano uno dei gruppi più moderati, tra i tanti formatisi nella diaspora afghana.
I talebani poterono quindi trovare in Pakistan basi sicure, finanziamenti consistenti e abbondanza di potenziali seguaci, sia tra i profughi afghani ammassati in quella miriade di campi che costellava il territorio pashtun del Pakistan occidentale, sia nei volontari che presero a giungere in Pakistan da ogni angolo del mondo musulmano per prendere parte alla lotta per la difesa della fede.
Fu proprio nelle madrase (scuole) del Baluchistan, del Punjab occidentale e del Khyberistan che sorsero i mullah che nei decenni successivi fecero l’Afghanistan ostaggio del più inflessibile fondamentalismo religioso cui il mondo musulmano abbia dovuto assistere dai giorni delle grandi conquiste arabe, quando perfino i grandi califfi non poterono non provare orrore al racconto delle atrocità commesse dai propri guerrieri contro i nemici della fede. La tradizione musulmana ricorda bene come Abu Bakr, il diretto successore di Muhammad alla guida dei credenti, non poté che redarguire severamente il generale Khalid al-Walid per le atrocità commesse dai suoi soldati nelle campagne, pur vittoriose, da essi condotte in Palestina, Siria, Armenia e Mesopotamia.
Nel profondo silenzio delle gole dell’Afghanistan e nelle madrase del Pakistan occidentale, invece, la difficile vita dell’esilio, le sofferenze indotte da una guerra atroce, l’aperta irreligiosità del nemico, la debolezza della cultura laica e il continuo via vai di combattenti da un lato all’altro del confine produssero una inarrestabile tendenza alla radicalizzazione religiosa della lotta e dei suoi partecipanti, una tendenza che non risparmiò neppure i talebani.
Meglio loro dei mujaheddin
Nel VII secolo come nel XX, furono soprattutto ragioni di natura spirituale e tattica a determinare il vincitore della lotta per la fede. La vittoria dei mujaheddin, infatti, certamente debitrice della loro ostinata determinazione, dovette molto anche alla principale caratteristica della loro organizzazione militare: la totale mancanza di un comando unificato; una carenza, questa, che rese impossibile ai sovietici avere ragione delle milizie afghane, perché ciascuna banda armata operava in maniera completamente indipendente dalle altre, incurante di qualsiasi accordo che il nemico fosse riuscito a concludere con esse così come di qualunque mutamento nella loro condizione strategica, magari in conseguenza di una sconfitta sul campo.
Una volta terminata la lotta in difesa della religione, tuttavia, questa stessa frammentazione politica si dimostrò fatale per i vincitori. Se il compito di stabilire ordine nel Paese era risultato impossibile per l’imponente macchia bellica sovietica, che pure non mancava degli strumenti necessari all’impresa, come potevano riuscire in essa milizie che di quella stessa frammentazione erano la più pura espressione?
I sovietici, infatti, possedevano una struttura organizzativa perfettamente centralizzata, una notevole esperienza nel ridurre all’obbedienza territori vasti, poco sviluppati e ostili a qualsiasi governo centrale, e il loro arsenale splendeva di veicoli ad alta tecnologia, capaci di fendere le grandi distanze dell’Asia in poco tempo. Di qualsiasi di questi strumenti, invece, i mujaheddin, uniti soltanto dalla comunanza di nemici, mancavano del tutto.
La carenza di un apparato istituzionale capace di conferire una dimensione nazionale alle attività politiche dei vari comandanti significava anche la totale mancanza di qualsiasi alternativa alla vendetta privata come strumento di giustizia, e l’impossibilità di ricorrere a strumenti alternativi alla paura come meccanismo di governo del territorio. Ma a mancare ai mujaheddin era soprattutto una visione politica davvero condivisa, una carenza particolarmente acuta in una società già divisa da fratture profonde e gravemente priva di esperienze di governo unitario durate più della breve vita di qualche brillante capo tribù.
Così, il ritiro dei sovietici non significò per l’Afghanistan la fine della guerra, e gli anni ’90 trascorsero anch’essi scanditi da battaglie e razzie, tra i mujaheddin e i resti del governo comunista asserragliato a Kabul nonché tra le stesse milizie di mujaheddin.
Fu proprio in quel periodo che i suoi futuri carcerieri fecero la loro comparsa nel Paese. Favoriti in ogni modo dai servizi segreti pakistani, che contavano di servirsi di loro per installare in Afghanistan un governo fantoccio e aumentare l’influenza del proprio Paese nello spazio politico musulmano, i talebani si insediarono rapidamente nell’est dell’Afghanistan, conquistandosi il favore della popolazione per la loro capacità di instaurare ordine senza fare ricorso esclusivamente alle armi.
Gli anni trascorsi a scrutare i monti dalla punta di un mirino, a tremare per lo scricchiolio di ogni sasso, senza la possibilità di ricevere cambi, senza alcun contatto con le proprie famiglie, e con la morte come sola compagna, avevano assuefatto i mujaheddin a tal punto alla violenza da rendere loro impossibile fare a meno di essa. Quando nel 1994 varcarono il confine occidentale pakistano per fare ritorno nel proprio Paese di origine, la popolazione civile afghana, stremata dalla guerra e dalle quotidiane faide tra le fazioni mujaheddin, salutò con favore l’arrivo di questi accattivanti individui dalla risposa sempre pronta, ritenendoli un’alternativa più onesta e clemente ai violenti combattenti delle montagne
In confronto ai loro rivali mujaheddin, incapaci di costituire una reale alternativa al crollo del governo comunista di Kabul, ormai imminente, i talebani possedevano diversi vantaggi strategici:
Avevano avuto a loro disposizione la migliore istruzione coranica che il denaro potesse comprare;
Disponevano di una visione politica comune;
Non avevano alcun trascorso nelle faide di rapina e omicidio che opponevano tra loro le bande di mujaheddin;
Possedevano alle proprie spalle, oltre confine, in territorio sicuro, un sistema di reclutamento e indottrinamento perfettamente oleato.
Forti del sostegno popolare, diffuso soprattutto nella parte sud-orientale del Paese, dominata da altri pashtun come loro, i talebani riuscirono nel 1996 a espellere da Kabul i resti del governo comunista, ormai abbandonato da Mosca al proprio destino, e nel 1998 il loro potere era oramai consolidato a sufficienza da consentire ai guerrieri in nero di lanciare l’ultima grande offensiva verso le pianure del nord, che hazara e tagiki avevano praticamente isolato dal resto del Paese.
La cattura delle pianure del nord, coperte di sterminate piantagioni di papavero da oppio, fu probabilmente più importante perfino di quella della capitale. Da allora in avanti, l’oppio divenne la principale fonte di finanziamento del regime talebano, al quale diede prova di poter fornire quantità di denaro virtualmente limitate soltanto dalla scarsa quantità di terra arabile concessa dai monti e dalle mine.
Oltre a porre le condizioni per la presa del potere dei talebani in Afghanistan, tuttavia, la vittoria della jihad sull’invasore sovietico segnò un epocale momento di svolta per l’intero fronte fondamentalista. Grazie anche alle particolari dinamiche politiche della Guerra Fredda, la lotta che si consumò in Afghanistan assunse una dimensione internazionale mai vista prima di allora nel mondo musulmano, neppure all’epoca delle crociate. Mai prima di allora si erano visti così tanti volontari accorrere da ogni angolo del mondo musulmano per partecipare alla lotta armata in difesa della fede per un tempo tanto continuativo.
Inoltre, la vittoria dei mujaheddin dimostrò che, nelle dovute circostanze – un territorio capace di ridurre il vantaggio tecnologico del nemico, il sostegno completo della popolazione e un cospicuo afflusso di aiuti esteri, in termini tanto di uomini quanto di materiali e di denaro – era possibile per l’islamismo ultraconservatore trionfare persino contro una superpotenza nucleare.
Grazie ai mujaheddin, il mondo musulmano aveva finalmente sconfitto l’Occidente laico, per di più con un trionfo totale. La vittoria in Afghanistan contro l’Unione Sovietica materialista e atea (e più tardi contro l’altra grande superpotenza rimasta) ha dato credibilità all’islamismo, ha formato milioni di giovani alla lotta armata, con tattiche capaci di annullare il vantaggio tecnologico dell’Occidente, e ha diffuso il fondamentalismo militante in tutto il mondo musulmano, perché i giovani che combatterono i sovietici in Afghanistan per tutti gli anni ‘80, al termine del conflitto, esportarono la jihad nei propri Paesi di origine
Fu proprio il successo della guerriglia dei mujaheddin a convincere le altre forze ultraconservatrici del mondo musulmano a passare all’offensiva, anziché limitarsi ad azioni di natura sì criminale, ma priva di una dimensione propriamente militare e sistematica (come ad es. rapimenti per riscatti e traffico di droga).
Osama bin Laden fu solamente il più fortunato di questi guerrieri del terrore; anche la sua carriera ebbe inizio in Afghanistan, come funzionario di quell’immenso complesso paramilitare. Senza la vittoria dei mujaheddin in Afghanistan, né Al-Qaeda né l’ISIS sarebbero mai divenuti i movimenti transnazionali capaci di controllare vaste porzioni di territorio e di organizzare un attacco dopo l’altro nel cuore delle capitali occidentali.
Un Paese in ostaggio
Sembrava che i talebani non volessero che facessimo niente. Avevano proibito addirittura uno dei nostri giochi da tavolo preferiti, che si gioca con dei gettoni su una tavola di legno. Sentimmo dire che avevano udito delle bambine ridere e fare rumore in una stanza ed erano entrati per distruggere la tavola. Pareva che vedessero noi donne come delle bamboline da controllare, a cui dire cosa fare e cosa non fare e come vestirsi. Ma io pensavo che si Dio ci avesse volute così non ci avrebbe fatto invece tanto diverse.
Malala Yousafzai
La presa del potere dei talebani comportò per l’Afghanistan una serie di radicali cambiamenti in ogni ambito della vita quotidiana. Al centro della loro visione politica vi era infatti la convinzione che la sopravvivenza delle comunità musulmane, e in primo luogo la loro libertà dal controllo dei Paesi occidentali, richiedesse una radicale ristrutturazione della società, una vera e propria rifondazione, da attuare all’insegna della più ferrea interpretazione della più radicale dottrina coranica, il salafismo.
Si tratta in sostanza di un’ideologia ostile a ogni aspetto della cultura occidentale.
Dove questa sostiene la necessità della secolarizzazione dei rapporti sociali e di quelli istituzionali, il salafismo intende ancorare gli uni e gli altri al moralismo religioso;
Dove l’Occidente fa della mancanza di condizionamenti imposti agli individui il fondamento di tutta la sua cultura materiale e spirituale, il salafismo contrappone una visione dei singoli come mere articolazioni del corpo sociale, prive di reale valore se staccate da questo, come le dita strappate alle mani;
Mentre l’Occidente ritiene la realizzazione emotiva il fine ultimo della vita, intesa in termini prettamente terreni, il salafismo sostiene che esso consiste nell’accesso al paradiso, raggiungibile solamente attraverso una ferrea condotta morale. Libertà e autocompiacimento da un lato, appartenenza e autocontrollo dall’altro.
Una volta saliti al potere, i talebani hanno presto costituito un corpus giuridico conforme alle posizioni del proprio credo, affidando il fondamentale compito di regolare i rapporti tra le varie articolazioni della società a una propria versione della sharia, la legge ispirata all’interpretazione più pura del Corano.
Ecco alcuni esempi delle regole cui gli afghani hanno dovuto sottostare dal 1996 al 2001, e alle quali dovranno con ogni probabilità tornare presto a familiarizzare:
Tutti i cittadini devono pregare 5 volte al giorno; chiunque venga sorpreso in quelle ore intento in altre attività verrà bastonato;
Tutti gli uomini devono portare la barba, lunga almeno un palmo oltre il mento; chi non si conforma a questa disposizione sarà bastonato;
Tutti i ragazzi devono portare il turbante: nero per le scuole elementari, bianco per le superiori, e vige l’obbligo di indossare l’abito islamico; a prescindere dalla stagione, le camicie devono essere abbottonate completamente, fino al collo.
È proibito cantare, danzare, giocare a carte, d’azzardo, e a scacchi, e perfino far volare gli aquiloni.
È proibito scrivere libri, guardare film e dipingere.
Se rubate, vi sarà tagliata la mano; se tornate a rubare vi sarà tagliato anche il piede.
Se non siete musulmani, sarete bastonati e poi imprigionati, se sorpresi a praticare la vostra religione in luoghi dove altri musulmani possano vedervi.
Se verrete sorpresi a convertire un musulmano alla vostra fede sarete giustiziati.
Se vi convertirete (apostasia, cioè tradimento della fede), sarete puniti con la morte.
Il dubbio è peccato e il libero dibattito espressione di eresia.
Quanto alle donne, alle quali il tradizionalismo dei mujaheddin avrebbe semplicemente imposto, al più, il ritorno agli abiti tradizionali, quanto mai variopinti, i talebani strapparono non soltanto qualsiasi forma di libertà che la modernizzazione avesse concesso loro, ma anche tutte le opportunità di espressione riconosciute ad esse dalla stessa tradizione. Oltre al trapianto del velo integrale della penisola arabica, il burqa, alle donne fu imposto ogni sorta di divieto:
Divieto di uscire di casa da sole, e obbligo, in caso di uscita necessaria, anche solo per recarsi in ospedale, di accompagnamento da parte di un parente maschio (mahram);
Divieto di prendere la parola in pubblico e perfino di ridere;
Divieto di truccarsi, di indossare gioielli o abiti anche solo minimamente vistosi;
Divieto di lavorare fuori da casa, di studiare e di apparire in televisione;
Divieto di dotarsi di un’istruzione superiore;
In breve tempo, le donne afghane, la cui avvenenza aveva finito con l’avere la meglio perfino sulla ferrea disciplina militare inglese del XIX secolo, si vennero a trovare in una condizione paragonabile, nella storia occidentale, soltanto con quella degli ebrei nella Germania del 1935.
Ma benché i talebani affermino il contrario, la legge islamica da loro instaurata non trae affatto i propri precetti esclusivamente dal Corano e dalla sunna (l’elaborazione dottrinaria dei brevissimi prescritti coranici); bensì, essa accosta a queste fonti non poche consuetudini del pashtunwali, il codice informale che regola il concetto di onore tra i pashtun.
L’esistenza di proibizioni giuridicamente vincolanti (cioè dotate di sanzione) anche per atti che non incidono materialmente sulla sfera giuridica altrui e la mancanza di eguaglianza dei soggetti giuridici di fronte alla legge non sono gli unici punti che alienano la sharia dalla cultura giuridica occidentale. L’interpretazione e l’applicazione dei precetti della sharia talebana, infatti, dipendono esclusivamente dai singoli mufti (o fuqaha, gli studiosi di diritto islamico), che emettono un responso (fatwa) contenente le disposizioni da eseguire. Mancando del tutto qualsiasi centralizzazione o coordinamento tra i giudici, inclusa la trascrizione delle sentenze, che vengono solamente lette ad alta voce, l’applicazione delle stesse norme differisce spesso di zona in zona. Naturalmente, nei confronti delle sentenze dei giudici non è ammesso il ricorso, né la possibilità di sottoporre la sentenza al riesame di giudici diversi, possibilità che invece esiste in altri ordinamenti, come quello pakistano, basati anch’essi sulla sharia.
E nella maggior parte dei casi, sono i giudici stessi a occuparsi anche dell’esecuzione delle sentenze, che quasi sempre implicano punizioni corporali basate sul concetto, tipicamente religioso, di espiazione della colpa commessa nei confronti della comunità attraverso il dolore fisico.
Questa è dunque la particolare risposta che il mondo ultraconservatore musulmano ha prodotto in Afghanistan per porre fine al declino politico percepito, come nel resto del mondo islamico, per tutto il corso del XX secolo. Frutto di un’autentica rivoluzione politica non meno del regime iraniano, lo Stato islamico eretto in Afghanistan ha finito con l’assumere una forma del tutto peculiare, e profondamente diversa da quella dello Stato venutosi a creare nell’Iran rivoluzionaria, che costituisce ancora oggi il termine di paragone più diretto con la realtà di oltreconfine.
Mentre in Iran, in seguito al contatto con la realtà politica e sociale del Paese, l’originario radicalismo è venuto raffreddandosi, l’isolamento in cui la guerra ha tenuto l’Afghanistan ha fatto sì che esso continuasse al contrario a espandersi sempre di più.
Benché anche l’Iran abbia imposto abiti tradizionali a uomini e donne, Teheran non ha mai spogliato le donne della propria professione o della possibilità di istruirsi e detenere proprietà, né il Paese di istituzioni elettive e responsabili di fronte ai cittadini del loro operato; ai talebani è bastato un solo lustro per gettare il Paese nel terrore e nella disperazione.
Mentre Teheran ha accettato di aprirsi alla tecnologia occidentale e, anche se solo limitatamente, al rimescolamento sociale che essa comporta, realizzando riforme istituzionali e sociali e avviando programmi di ricerca e sviluppo propri, l’Afghanistan del mullah Omar ha rifiutato qualsiasi contatto con la modernizzazione, scivolando nella fame e in una miseria quasi irreparabile
Saliti al potere grazie al sostegno popolare e pakistano proprio in virtù della loro moderazione, i talebani hanno presto perduto ogni parvenza della superiorità morale che erano stati in grado di farsi riconoscere. Hanno saputo, per qualche tempo, portare qualche parvenza di ordine in un Paese dilaniato dalla guerra e dalla fame, ma con il loro crescente radicalismo e il loro coinvolgimento nel traffico internazionale di armi e droga hanno rapidamente perduto la fiducia riposta in loro, finendo col ritrovarsi a spadroneggiare su un Paese rassegnato e atterrito.
Del loro originario ascendente, solamente quello tribale ha saputo resistere alla seconda prova delle armi. Con l’arrivo degli americani, nel 2001, solamente i pashtun del suo-ovest hanno continuato a sostenere le forze del mullah Omar. Il resto del Paese, invece, si è consegnato senza indugio alle forze NATO, sfilandosi di dosso il turbante e il burqa con lo stesso sollievo con il quale il viandante si libera il piede dallo stivale troppo stretto.
Solamente gli stessi errori del passato hanno impedito il tracollo completo dei talebani. L’abbandono delle aree rurali a se stesse, le ronde omicide dei droni americani e la corruzione dilagante nelle burocrazie centrali hanno impedito ai governi democratici succedutisi al potere dopo il 2001 di liquidare una volta per tutte le basi di consenso dei talebani. Come nei primi anni ’90, i villaggi dell’Hindu Kush si sono dovuti arrendere all’evidenza che i talebani costituissero, per il loro futuro, il male minore. Lo stato di totale disorganizzazione delle istituzioni centrali, esercito in primis, ha fatto il resto.
I nuovi talebani, ai banchi del governo dallo scorso agosto, si sono mostrati tuttavia differenti dai loro predecessori. Sedendosi ai tavoli dei grandi forum internazionali (come a Doha, abituale sede dell’OCSE), maneggiando i social network e concedendo interviste anche ai giornalisti occidentali o filo-occidentali, questa seconda generazione di talebani ha affermato di voler lasciare alle proprie spalle le sinistre politiche del passato, e dimostrato di aver capito la necessità di aprirsi all’occidentalizzazione, perlomeno alla sua tecnologia e alle forme del suo linguaggio.
Anche nella propria azione di governo, i nuovi talebani hanno realizzato dei sistemi di gestione locale che, bene o male, hanno saputo venire incontro alle necessità della popolazione rurale assai meglio dei programmi dei precedenti governi democratici, ed è chiaro che, con o senza il fucile in mano, i guerrieri del mullah sono tornati per restare.
A pochi mesi dalla presa del potere, tuttavia, le poche notizie che filtrano dal Paese riproducono uno scenario ben diverso da quello proclamato alle telecamere alla vigilia del loro assalto alla capitale. Evacuato in tutta fretta dagli operatori dello sviluppo internazionale e con gli aiuti finanziari dell’Occidente bloccati fino a data da stabilirsi, il Paese è collassato in meno cento giorni e le uniche statistiche in rialzo sono le cifre dei profughi e degli episodi di violenza e intimidazione ai danni delle donne, che del resto non si sono mai fatte alcuna illusione su ciò che le attendeva.
Soltanto il tempo potrà dirci se siamo di fronte a un regime disposto a fare propria la lezione dell’Iran, anche solo limitatamente, anche solo in una parte dei propri componenti, o semplicemente dinanzi a un fondamentalismo che cela dietro tinte più pop la rinnovata intransigenza indotta dalla vittoria.