Il fenomeno mafioso denominato COSA NOSTRA è un problema atavico e sempiterno per la Sicilia.
Fin dalla seconda metà dell’ottocento questa piovra ha allungato i suoi tentacoli dapprima sull’isola, poi espandendosi in tutta la Nazione fino ad arrivare a toccare la maggior parte dei Paesi occidentali.
Ancora oggi questo fenomeno persiste seppur in maniera piu’ subdola e nascosta grazie alla maggior consapevolezza e conoscenza da parte dei cittadini e delle autorità competenti che la combattono ogni giorno, come i ragazzi di ADDIOPIZZO e dell’associazione LIBERA, solo per citare alcuni esempi.
Ma c’è stato un preciso periodo storico di cui Cosa Nostra è stata la protagonista assoluta, un periodo in cui ancora della piovra non si sapeva, o non si voleva sapere, nulla.
Un periodo fatto di sangue e misteri in cui la Mafia siciliana ha raggiunto il suo apice espansionistico arrivando addirittura a stringere le mani di politici e pezzi deviati dello Stato.
Parliamo del ventennio che va dai primi anni 70 alla fine degli anni 90.
In quegli anni a farla da padrone erano i Corleonesi di TOTO’ RIINA, il famigerato Capo dei Capi, che aveva scatenato una guerra tra famiglie mafiose mai vista prima riempiendo la Sicilia, una delle isole piu’ belle al mondo, di eroina, sangue e piombo.
Ma furono anche gli anni in cui alcune persone provarono a fermare e combattere a viso aperto la “piovra” che soffocava l’isola e l’Italia intera:
Questi sono solo alcuni dei nomi che hanno lottato contro Cosa Nostra.
Giudici, poliziotti, carabinieri e generali. Moderni Capitani Coraggiosi che hanno dato la vita per ricacciare la piovra nell’abisso di fango dal quale è spuntata.
La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine
Giovanni Falcone
Ma c’è stato un uomo che, più di tutti, ha fatto tremare dalle fondamenta questa struttura mafiosa, un uomo che per combatterla non ha imbracciato le carte dei processi o le armi ma solo parole e soprattutto il suo sorriso.
Perché quest’uomo non era un’autorità statale o militare, quest’uomo era un prete.
Quest’uomo era Don Pino Puglisi.
IL SACERDOZIO E IL PRIMO INCONTRO CON LA MAFIA
Don Pino Puglisi, al secolo Giuseppe, nasce il 15 Settembre 1937 a Brancaccio, alla periferia di Palermo, da una famiglia modesta (padre calzolaio, madre sarta).
Entra in seminario nel 1953 e diventa sacerdote il 2 Luglio 1960.
Il 1 Ottobre 1970 diventa parroco a Godrano, un comune in provincia di Palermo, in cui Don Pino ha il primo contatto con Cosa Nostra.
Da molti anni ormai a Godrano è in corso una sanguinosa faida tra famiglie mafiose per il controllo del territorio.
Come già detto il problema della Mafia in Sicilia è atavico, così come atavici sono i rancori che i membri delle famiglie mafiose si portano dietro, basta un nonnulla, una frase sbagliata, un torto, un favore non ricambiato per scatenare una guerra che coinvolge, non solo i diretti interessati, ma anche parenti e che si protrae per generazioni e generazioni.
E’ il caso della faida di Godrano in cui, tra le vittime, si conterà anche un bimbo di appena 10 anni.
Don Pino percepisce fin da subito il clima di paura, per nulla celato in realtà, che si respira nel paesino.
Quando si vive in comuni dove a farla da padrone è la mafia, soprattutto se è in corso una guerra tra clan, è come vivere in un limbo fatto di regole proprie:
la gente bada bene a chi e come rivolgere saluto, non ci si perde troppo in chiacchiere perché ogni singola parola detta può decidere il destino di chi la pronuncia, ogni gesto, ogni sguardo può fare la differenza tra la vita e la morte; persino i bambini, le creature che meno dovrebbero essere coinvolte, non vengono risparmiate.
Questo è il clima a Godrano e Don Pino lo sa bene.
Ciò che lo turba di piu’ è proprio il fatto che i giovani sono parte integrante di questa faida, spesso sono usati dalle Mafie come corrieri o portalettere, quando hanno l’età giusta (13/15 anni) iniziano il praticantato per diventare soldati di Cosa Nostra, gli insegnano che solo così otterranno rispetto, solo sparando faranno carriera.
Ma cosa può fare un prete per fermare tutto ciò?
Come si può metter tregua a una faida così antica?
Don Pino dalla sua ha solo parole e sorrisi, così decide che saranno quelle le armi con cui proverà a fermarli.
Inizia fin da subito.
In chiesa le sue prediche sono tutte sull’importanza del perdono, ogni singolo giorno non fa altro che predicare ciò, parla di questo e parla dei giovani.
I giovani per lui diventano una vera e propria missione.
Non importa se un giovane ha commesso un reato o se quell’altro è figlio di chissà quale boss, per Don Pino sono solo giovani, ragazzi che si sono persi per strada ma degni comunque di riappropriarsi della propria identità di adolescenti.
Di lì a poco non mancheranno le minacce, le accuse e le ritorsioni, ma il prete dal sorriso perenne non si ferma, anzi rincara la dose, non si limita piu’ all’omelia in chiesa, ne parla in strada, al bar, al mercato e persino alle madri e alle mogli dei cosiddetti uomini d’onore.
Ebbene la parola, se a pronunciarla è qualcuno che ne incarna il significato, può avere un peso decisivo, ben più grande di quello del piombo.
Le parole di un modesto parroco giungono alle orecchie dei Boss di Godrano che iniziano ad ascoltarlo, a vedere in questo prete così bravo coi giovani qualcuno di atipico e tutto sommato rispettabile.
Don Pino diventa il mediatore di pace riuscendo a riappacificare le due famiglie in lotta, mettendo dunque fine ad una faida iniziata più di 40 anni prima e salvando la vita a numerosi giovani.
“Quando arrivò a Godrano destò subito una certa curiosità, perché non indossava l’abito talare, era mingherlino, girava per le strade e, con grande naturalezza e quel suo iconico sorriso, salutava tutti, anche...loro. Padre Puglisi era un sacerdote, certo, ma era anche un amico, sempre disposto ad aiutare e ad ascoltare gli altri, a condividere un pezzo di pane, qualsiasi cosa”
Uno dei ragazzi di Godrano
IL RITORNO A BRANCACCIO E LA LOTTA ALLA MAFIA
Il 31 Luglio 1978 Don Pino lascia Godrano e fino al 1990 riveste molti incarichi diversi: pro-rettore del seminario minorile di Palermo, direttore del Centro regionale Vocazioni e membro del consiglio nazionale, docente di matematica e religione in diversi istituti e animatore presso diverse realtà cattoliche.
Il 29 settembre 1990 viene nominato parroco a Brancaccio, il quartiere dov’è nato e dove non vedeva l’ora di tornare, ma anche il famigerato quartiere comandato dalla cosca dei fratelli Graviano, legati alla famiglia mafiosa dei Bagarella e quindi estremamente vicini alla fazione corleonese di Riina.
I primi anni novanta sono anni di forte agitazione all’interno di Cosa Nostra. Il Maxiprocesso si è concluso da pochi anni (10 Febbraio 1986 in primo grado) e la piovra ne è uscita coi tentacoli mozzati; le rivelazioni del pentito Tommaso Buscetta, il Boss dei due mondi, hanno portato pesanti condanne alla mafia: 19 ergastoli e pene detentive per un totale 2665 anni di reclusione, Riina, Provenzano e lo stesso Bagarella sono latitanti e l’organizzazione criminale si trova così a dover cercare nuova forza lavoro per mandare avanti gli affari.
E dove trovarla se non nei quartieri di periferia dove la gente fatica a mettere il pasto a tavola?
Brancaccio è uno dei quartieri che piu’ infoltisce le fila di cosa nostra e ad essere arruolati sono sempre loro, i giovani.
Don Pino inizia subito la sua opera antimafia, la sua attenzione si rivolge soprattutto al recupero degli adolescenti già reclutati dalla criminalità mafiosa, li vede come persone non come mafiosi, li tratta da ragazzi quali sono, fa capire loro, sempre con dialogo e sorriso, che la vita non ha ancora chiuso le porte e che davanti hanno una strada ancora spianata e solo il loro atteggiamento ne determinerà la meta.
Poco alla volta sempre piu’ adolescenti vengono attratti dal carisma di questo parrinu chi cavusi, prete con i pantaloni, chiamato così sempre per la sua abitudine di non indossare l’abito talare quando girava per le strade, al punto da iniziare a collaborare a diffondere il messaggio.
Il 29 Gennaio 1993 Don Pino e i suoi giovani inaugurano il centro “Padre Nostro” rivolto ai bambini e agli adolescenti del quartiere dove, attraverso varie attività e giochi, riesce a far capire che si può essere rispettati senza essere mafiosi, ma credendo nei propri ideali.
Don Pino si impegna anche come cittadino, per la riqualificazione del suo amato Brancaccio, promuovendo la creazione di un centro sanitario, la sistemazione delle fogne, la costruzione di una scuola media e un programma di alfabetizzazione per tutti gli abitanti, le sue omelie sono sempre rivolte ai mafiosi e al perdono di quest’ultimi in un percorso mirato all’apertura e non alla chiusura, alla libertà e non alla paura.
Gli abitanti di Brancaccio vedono in lui un punto fermo, un braccio teso per uscire dall’inferno, non un mito ma un uomo che, con quel suo sorriso e quel suo modo di vedere tutti come persone, al di là del contesto culturale di provenienza, è riuscito a farsi esempio di umanità e speranza in un quartiere dove, all’indomani della strage di Capaci, i ragazzini gridavano per le strade “ Abbiamo vinto! Viva la mafia”.
Un uomo che con l’esempio è riuscito ad assestare un colpo secco a Cosa Nostra, togliendole la forza lavoro, privandola così delle gambe per camminare.
Non ho paura delle parole dei violenti, ma del silenzio degli onesti.
Don Pino Puglisi
L’ULTIMO SORRISO
Quando si colpisce un’organizzazione mafiosa in profondità si ottiene lo stesso effetto di un animale ferito.
La bestia è spaventata ma proprio per questo si fa più aggressiva, Cosa Nostra era così, ferita e molto aggressiva al punto da dichiarare guerra allo Stato.
Le stragi di Capaci e Via D’Amelio ne sono l’esempio più tragicamente chiaro.
Le intimidazioni e le minacce non mancano nemmeno a Don Pino, le sue parole e i suoi gesti sono pericolosi per la mafia che, come già detto, si vede sottrarre bambini e ragazzi.
Ma lui, come sappiamo, non si ferma e la bestia reagisce: Don Pino è ormai un ostacolo da eliminare.
E’ la notte del 15 settembre 1993, giorno del suo 56° compleanno, Don Pino rientra dalle sue attività, parcheggia la sua uno bianca e si avvia verso il portone di casa.
Sono le 20:40.
Un rumore di passi dietro di lui poi qualcuno lo chiama, si volta, altri passi dietro le spalle, è circondato.
Don Pino allarga le braccia e pronuncia la sua ultima frase: “me lo aspettavo”.
Un colpo di pistola alla nuca, poi silenzio.
Così muore un uomo che ha saputo vedere oltre quel muro di gomma che è Cosa Nostra, che ha saputo vedere negli occhi di quei ragazzi una luce che era invisibile anche a loro stessi.
Un uomo che è rimasto umano nonostante il contesto omertoso che abitava, mentre uccidere o essere uccisi per molti era l’unica scelta sensata.
Gli assassini di Don Pino, dopo l’arresto hanno intrapreso un cammino di pentimento e conversione dovuto all’ultima immagine che hanno di Don Pino e che ben si descrive attraverso le loro stesse parole:
Sorrideva, dopo avergli sparato ci siamo avvicinati per vedere se era morto, Don Pino aveva le braccia aperte e sorrideva.