Gli ordini di un marinaio
Comincia tutto con una richiesta di soccorso, una voce alla radio che gracchia delle coordinate, la descrizione dei tre natanti e il numero di persone a bordo, 277. Il capitano si mette in contatto con Frontex per avere indicazioni riguardo a dove far sbarcare queste persone, intanto imposta la rotta per intercettare i natanti alla deriva.
È notte su quel tratto di Mediterraneo, a metà strada tra Libia e Sicilia, e l’orizzonte del mare si distingue da quello del cielo solo grazie alla miriade di stelle e alla luna.
Quando la motovedetta della marina militare italiana si avvicina ai tre gommoni mezzi sommersi è accolta da grida di speranza, centinaia di persone grandi e piccole con l’acqua alla vita che sbracciano, tremano, chiedono aiuto, chiamano, piangono. In mare, oltre ai gommoni che affondano, galleggiano i cadaveri di chi non ce l’ha fatta, pezzi colorati di famiglie distrutte alla deriva nel buio di un mare di sofferenza. Per quelle persone in pericolo di vita quelle divise rappresentano sicurezza, amicizia, speranza di salvezza e la fine del loro viaggio omerico da incubo. Il ricordo degli orrori che ogni essere umano su quei natanti ha dovuto affrontare per lasciare l’Africa resterà impresso nei loro corpi e nelle loro menti ancora per molto tempo, ma con l’arrivo dell’Italia il peggio è passato. I marinai italiani si affacciano dalla motovedetta come angeli illuminati dai riflettori che tagliano la notte, già all’opera con giubbotti di salvataggio e corde per recuperare i naufraghi.
Sembra un’operazione di soccorso come tante altre effettuate dalla marina italiana ma i soccorritori sanno che la realtà è un’altra e il loro cuore è stretto in una morsa mentre accolgono a bordo quelle duecentosettantasette anime, quei bambini, quegli uomini, donne e anziani che continuano a domandar loro informazioni e rassicurazioni. C’è Shara, nigeriana, tiene in braccio il suo bambino di due anni; sua sorella Fatima, incinta a diciassette anni, si accarezza la pancia. Nessuno dei due bambini, né quello che è sul barcone né quello che sta per nascere, ha un padre certo. Sono figli degli stupratori libici, dei carnefici che per due anni hanno sfruttato e violentato le due ragazze, ma quel passato ormai è alle spalle, “Ce l’abbiamo fatta, abbiamo raggiunto l’Europa” dice piangendo Shara a suo figlio e guarda il marinaio italiano vicino a loro cercando conferma nei suoi occhi.
La morsa sul cuore del marinaio si stringe ulteriormente “Tranquilli, vi portiamo in Italia” mente, ma all’alba l’imbroglio è evidente davanti alle luci del porto di Tripoli, i cartelli in arabo, i soldati in attesa sulla banchina. Dopo tutto quello che hanno passato li hanno riportati al punto di partenza, raccolti, rifocillati ed illusi prima di restituirli alle grinfie dei loro carcerieri. Iniziano le proteste, le suppliche. Ora le persone migranti chiamano gli italiani fratelli. “fratelli, perché ci fate questo? Perchè dopo averci salvato ci riportate all’inferno?” Oluwa, un gigante d’uomo, è in ginocchio davanti al marinaio italiano spezzato tra dovere e morale. Anche Fatima supplica, indicando la creatura che porta in grembo “Lo capite che questo bambino è figlio di quei carnefici libici che mi hanno violentata per mesi, e che mi violenteranno ancora non appena mi farete sbarcare?”. Gli occhi del marinaio si riempono di lacrime mentre maledice i suoi ordini, misura con il metro del Patrio Dovere lo spessore della sua colpa perché sotto quella divisa militare c’è un uomo, un padre e un marito che non riesce più a distinguere il limite, il confine: dove tracciare la linea tra dovere e morale? Come fare a rimanere umani in queste circostanze?
Nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche
Convenzione di Ginevra - articolo 33
“Mi vergogno e non ci dormo la notte” racconta il militare “Lì a bordo c’erano una quarantina di donne, molte incinte, molte con bambini piccolissimi e io che li avevo salvati li ho dovuti riportare indietro. […]”.
Quest’uomo ha eseguito un ordine pur non ritenendolo giusto, noi avremmo davvero fatto diversamente nelle stesse circostanze? Magari contestando l’ordine ai nostri superiori sulla base della Convenzione di Ginevra?
Qua non si cerca di assegnare una colpa, le responsabilità ci sono e pesano su tanti paesi e tante persone; è però necessario definire cosa significhi restare fedeli alla propria morale all’interno di una gerarchia rigida come quella delle autorità. Davvero bisogna sempre eseguire gli ordini gerarchici? Durante crisi umanitarie come queste il territorio tra morale e dovere si sfoca, si complica, si riempie di burocrazia ed in questo marasma è facile perdere di vista valori fondamentali come i diritti umani. Il problema è che se ce ne dimentichiamo in situazioni come queste, se eseguiamo gli ordini, delle persone muoiono o vengono torturate; si tratta di quelle scelte difficili, capitate innumerevoli volte nella storia, in cui entrambe le opzioni sembrano sbagliate e l’ago della bilancia è rappresentato solo dalla nostra morale.