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Un calcio all’odio – Predrag Pasic

Immaginate di svegliarvi nel vostro letto al suono della sveglia mattutina, il richiamo alla solita routine giornaliera: mettete su il caffè, vi rinfrescate in bagno, fate colazione guardando il sole sorgere sui palazzi della vostra città. Un nuovo giorno inizia, uscite di casa e, come ogni mattina, salutate il vicino sulle scale del condominio. Uscite in strada con in testa i prossimi eventi ed impegni della giornata, andare al lavoro, passare al supermercato, andare a trovare i vostri genitori o amici. 

Ora immaginate che la vostra sveglia siano i tuoni secchi dei colpi di Kalašnikov in strada: il richiamo alla solita routine giornaliera. Immaginate di non avere il caffè, né del cibo per la colazione; i palazzi della vostra città sono ancora lì, per la maggior parte, ma l’alba è carica di tensione. Immaginate che un vostro concittadino sia disposto letteralmente ad uccidervi per una sigaretta, che per muovervi per strada dobbiate correre pregando che il cecchino di turno non punti nella vostra direzione o che dal cielo non vi piova addosso una granata; provate ad immaginare che il vostro vicino di casa, lo stesso che salutavate ogni mattina sulle scale, vi piombi in casa con un fucile in mano al grido “fuori dai coglioni musulmano bastardo”.

Quel che state immaginando è la mattina a Sarajevo nei primi anni ‘90; una città piena di odio e morte, in cui l’odore del sangue aveva sostituito il profumo del pane appena sfornato e quello del mercato cittadino, in cui le grida delle vittime e dei carnefici coprivano il canto del muezzin all’alba.

Sarajevo, da secolare simbolo di convivenza multietnica divenne il triste palcoscenico di una delle più atroci ed insensate guerre del ventesimo secolo.

Adesso accendete la radio, in una mattina come tante, ringraziando il cielo di essere ancora vivi e preparandovi ad ascoltare l’ormai consueto necrologio dei morti “del giorno”. Ma ad un certo punto la voce dello speaker viene interrotta da una sorta di messaggio pubblicitario:

PREDRAG PASIC  APRE UNA SCUOLA CALCIO PER TUTTI I BAMBINI DI SARAJEVO”.

Una scuola calcio? A SARAJEVO? Verrebbe da pensare che si tratti di uno scherzo, sarebbe una pazzia. Eppure quella voce l’avete già sentita, tempo fa in giorni che ormai sembrano lontani, quando Sarajevo era la città esempio di integrazione culturale e religiosa. E’ la voce di Predrag Pasic, un nome che fino a pochi anni prima ha fatto battere i cuori di migliaia di tifosi di calcio nei Balcani. Famoso centrocampista della nazionale Jugoslava, è tornato da qualche anno nella sua citta città natale dopo aver trascorso una carriera calcistica in Germania.

Pasic decide di tornare per indossare la maglia della sua squadra del cuore: FK Sarajevo. Quando nel 1992 scoppia la guerra è ancora un calciatore in attività e deve decidere cosa fare. Potrebbe andare via, all’estero, nella speranza di strappare un contratto con qualche squadra che lo cerca. Invece decide di restare.

Una mattina, seduto a bere un caffè con i suoi vecchi compagni di squadra durante uno dei rari momenti di cessate il fuoco, Predrag osserva la sua città, una città che per colpa della guerra è diventata l’ombra di se stessa:

I palazzi sono deturpati dalle bombe, molti di essi non esistono più, non c’è più traccia di quella che può essere considerata vita normale ma, sopratutto, non ci sono bambini che giocano per strada. Ed è proprio in una città fantasma che Predrag decide di aprire una scuola calcio per bambini. Vuole aiutarli a tornare a giocare per dare una parvenza di normalità alla loro esistenza, per insegnare come nonostante tutto la vita vada avanti ma, più importante di tutto, per far passare il messaggio che l’anima di Sarajevo possa essere salvata solo mettendo da parte l’odio e la gente fosse tornata a vedersi non come Serba, Croata o Musulmana ma come un unica grande squadra. Proprio come quel FK Sarajevo stampato nel suo cuore.

Per molti l’idea di aprire una scuola calcio in una città assediata dalle bombe e con la gente nel mirino dei cecchini è semplicemente una “pazzia”. Ma ciò nonostante Pasic va avanti, raduna alcuni dei giocatori del FK ,contatta l’unica radio ancora attiva in città e registra il famoso messaggio. E’ così che nasce la scuola calcio BUBAMARA, vicino ad un cimitero che prima era un campo di calcio.

Il giorno di apertura nessuno si aspettava più di sei o sette bambini. Pensate allo stupore di quei pochi che hanno creduto a quel “pazzo Pasic” quando al campo si presentano oltre duecento bambini. Bambini serbi , musulmani, croati pronti a giocare insieme, a fare squadra mentre i genitori si abbandonano all’odio e alla paura.

Predrag mette da subito le cose in chiaro: vuole che la scuola sia un punto d’incontro, non vuole sentir parlare di nazionalismi: “Niente muri, soltanto ponti“, ama ripetere.

Ponti. Il simbolo di Sarajevo.

Come quello di Grbavica che unisce la città.

Ponti.

Come quello che i bambini devono attraversare ogni volta per arrivare al centro sportivo.

E per una volta, in questa storia, i cecchini non sparano.

"Ho sempre pensato che l'integrazione fosse un valore"

Oggi, a distanza di anni, sono molti a dire che quel pazzo del FK aveva ragione.

Venticinque anni dopo la scuola è ancora lì a testimoniare che rimanere umani è possibile ed anche un semplice sport può salvare delle vite, mostrando l’alternativa dell’integrazione quando tutt’intorno regna l’odio e la discriminazione.  Bubamara ha diverse scuole in tutto il paese ormai, luoghi in cui i ragazzini si conoscono, imparano ad accettare le proprie diversità ed a giocare con la stessa maglia. Tutti uguali. “E la parte migliore è che capita anche ai loro genitori” dice Pasic in un’intervista “Sembra una banalità, ma è importantissimo in questo paese. Conoscere l’altro, viaggiare, non fermarsi agli stereotipi”.

Durante gli anni della guerra alcuni bambini sono riusciti a raggiungere l’Italia e, grazie al progetto INTERCAMPUS, hanno avuto modo di fare tirocini nelle giovanili delle squadre Italiane.

La soddisfazione più grande per Pasic è comunque sempre stata quella di vederli giocare come un unico grande team. 

In questi anni, al Bubamara, ho visto migliaia di ragazzini straordinari. Che con il tempo sono diventati medici, insegnanti, avvocati. Mi piace pensare, a volte, di averli aiutati a tirare fuori la loro parte migliore